Ogni forma di comprensione linguistica ha bisogno di circoscrivere, di delimitare in corrispondenze precise il significato da veicolare e per questo trova spesso difficoltà nel trasmettere concetti ampi, legati a stati d’animo complessi, a umori fugaci o, addirittura, contraddittori.
Le convenzioni del linguaggio, chiuse in limiti di senso e in regole sintattiche e grammaticali, costituiscono un reticolo invisibile che “addomestica” le possibilità comunicative trascurando spesso i sussulti della componente emotiva e irrazionale che ci appartiene e che caratterizza nel profondo ognuno di noi.
La fotografia possiede invece estrema duttilità espressiva: l’ampia scelta dei parametri di ripresa permette sia di documentare in modo incisivo che di liberare e trasmettere emozioni vaghe e recondite, conferendo forma e forza vitale anche a semplici suggestioni.
Ecco allora che un “mosso” raffigurante il volo di comuni gabbiani mi appare come un lieve movimento di forme indistinte che tende ad avanzare e salire, quasi “evaporando”. Lo stato d’animo che associo all’immagine mi riporta ad una sorta di liberazione dalla corporeità, dalla gravità, dai confini materiali delle cose rappresentate. Tutto è aria, movimento, leggerezza, tonalità impalpabile, luce che si diffonde.
Non ho mai dubitato che la rappresentazione fotografica che generasse in me le emozioni più profonde e durature fosse il “mosso”. Sarà forse per la sua capacità di sintetizzare lo scorrere del tempo che si manifesta nel senso di movimento racchiuso un unico fotogramma, sarà che associo il movimento alla vita stessa, anzi: alla manifestazione visibile di una sorta di “aura vitale” delle cose rappresentate.
I contorni evanescenti, le scie del passaggio non rivelano più fisicità, materia, ne mantengono solo tracce vaghe: luci, sfumature, trasparenze.
L’istante rappresentato appare dilatato e si instaura un legame diretto tra immagine ed emotività: un’immagine mossa piace o non piace e, senza mezze misure, emoziona o infastidisce.
Si tratta certamente di una scelta formale, di mera estetica della rappresentazione, ma sono giunto alla conclusione che sarebbe limitativo associare la forma ad un semplice accessorio: senza forma, infatti, qualsiasi contenuto rimarrebbe “potenziale” e privo della condizione necessaria per manifestarsi.
Nella forma imperfetta e imprecisa di un mosso c’é tutta la nostra stessa imperfezione.
Nell’ultima luce di un giorno qualunque, una farfalla interrompe il suo volo incerto per posarsi su un piccolo cumulo di pietre. Istintivamente mi posiziono, seleziono l’inquadratura e scatto.
La farfalla riprende presto il volo per posarsi su un fiore lontano.
Osservandola sul display della reflex mi accorgo che le ali sono consunte, sfibrate, con i margini danneggiati: è ormai prossima alla fine del suo ciclo vitale.
Mi soffermo a pensare che noi esseri umani di fronte alla morte ci ritroviamo inevitabilmente inermi e impauriti, ci sentiamo molto più fragili e angosciati di ogni altra forma vivente.
È come se gli animali istintivamente avessero compreso invece che la vita non é fissità, ma dinamismo, movimento ciclico: così, mentre noi ci affanniamo alla ricerca di un motivo in grado di spiegare il senso del vivere e del morire, loro riconoscono intimamente i cambiamenti che caratterizzano l’esistenza e li accolgono con semplicità, depositari del tutto inconsapevoli di un sapere profondo. Con la loro accettazione disarmata (e per noi disarmante) paiono continuamente indicarci che l’umiltà e la spontaneità sono indispensabili per vivere. E per morire.
Come un naufrago avvinghiato allo scoglio, una gallinella d’acqua osserva la potenza immane delle correnti avverse. Immobile, lo sguardo che spazia oltre, attende l’istante decisivo in cui il coraggio sopravanzi la paura.
Sento qualcosa di eroico in quella volontà sostenuta con ostinazione, in quella sorta di sfida proclamata.
Mentre l’oscurità diviene sempre più fitta, all’improvviso la gallinella spicca il suo volo radente sorvolando cascata e correnti.
Atterra lontano, più lontano di quanto possano spingersi i miei occhi.
Una breve attesa ed un fringuello si é posato su un albero vicino: ha cominciato a catturare insetti sul tronco, lanciandosi di tanto in tanto sulle nuvole brillanti di moscerini che danzavano davanti a lui. Ne catturava più di uno ad ogni volo concitato: potevo sentire il suo delicato sfarfallio d’ali. Gli insetti, come punti luminosi, si muovevano ricamando voli concentrici e regolari. Ad ogni incursione questa sorta di “firmamento” veniva spogliato di qualche stella, poi di intere costellazioni, fino a quando non é rimasto che un piccolo cielo vuoto, scuro e silenzioso.
Lasciando da parte per un istante la frenetica ricerca dello scatto d’effetto e quella subdola forma d’agitazione mentale che comporta, adagio il pensiero nel lento fluire del tempo e nei mutamenti di luminosità che si susseguono.
E’ come se entrassi a far parte dello scenario non come semplice osservatore, ma in modo attivo e compartecipe.
Il senso di stasi e di quiete che avvolge la palude in una mattina d’autunno é la medesima calma e immobilità delle mie sensazioni più’ profonde: sono presente in quello spazio, ne faccio parte e la sua rappresentazione attraverso l’obiettivo acquista nuovo significato: una sorta di ritratto interiore.
Tutto sembra volgere alla fine: il giorno e le sue fatiche, il cammino, la luce che scolpisce forme e ne accende i colori. Gli ultimi istanti che mi separano dal buio sono intrisi di silenzio: anche il vento si é placato. Di tanto in tanto mi fermo ad ascoltare la quiete che mi circonda: quel vuoto apparente, come un’armonia interrotta, mi riconduce in me stesso. Sono nei miei passi e nel respiro, nei miei muscoli indolenziti. Tra le foglie al margine della laguna sciami di zanzare danzano: le loro minuscole ali imbevute di luce graffiano il buio con traiettorie impazzite.
A volte mi chiedo come mai io sia irrimediabilmente attratto dalla rappresentazione di forme incerte, dal perseguire evocazione a scapito della narrazione. Sono arrivato, col tempo, a formulare questa ipotesi: l’uomo nella sua ricerca del bello, della perfezione formale, proietta il suo desiderio verso l’infinito, ma poiché la mente non riesce a concepire l’infinito, non gli resta che accontentarsi dell’indefinito: la raffigurazione dell’indefinito, con le sue forme oscillanti ed eteree, con la sua dimensione temporale fluttuante dove ogni cosa è presenza ed assenza allo stesso tempo, crea l’illusione dell’infinito. E’ una sorta di infinito rappresentabile, concepibile. E ne conserva intatto il mistero.
Ho
assimilato spesso l’attesa ad una sorta di “nulla” che si estende tra
il presente e il momento futuro desiderato, col tempo ho compreso invece che è
un luogo d’ascolto, di incontro: il volo distante di un rapace, i giochi di
luce tra le foglie, il fruscio d’erba che accompagna i miei passi.
Uno stillare di gocce che dai rami si ricongiungono alle acque dello stagno si
insinua nel mio silenzio.
È nell’attesa che ci riappropriamo del tempo.
Lievi, delicate note visive punteggiano una luminosità dilavante che accoglie in sé ogni cosa e ne dissipa la forma. In bilico tra la propria essenza e la luce, uno stormo di fenicotteri oppone al bianco la consistenza diluita dei corpi. Sospesi nel tempo, solitari vessilli di un esercito sbaragliato, non vacillano. È qui che io sono, qui e non altrove. Nel luogo in cui si irradiano e ricongiungono traiettorie silenziose, dove i passi si fermano, dove la mente non arriva. Dove frammenti, spezzati come pietra e duri di gelo, si ricompongono in forma intatta e nuova.